lunedì 4 giugno 2012

Il prete e gli altri (D. Mosso, La Messa e il Messale n. 2, LDC 1985)

Mi hanno raccontato che un pio sacerdote (il quale celebrava la messa con molta devozione, senza mai distogliere lo sguardo dall'altare) un giorno, avendo pronunziato la rituale formula di saluto all'inizio della messa: «II Signore sia con voi», senza alzare gli occhi dal libro, si è sentito rispondere da qualche fedele un po' birichino: «E con il tuo messale!».

Certo, per celebrare l'Eucaristia come si deve ci vogliono raccoglimento e devozione. La messa — nei giorni festivi come nei giorni feriali — è sem­pre una cosa seria. È sempre memoriale della mor­te e risurrezione del Signore, «azione sacra per eccellenza», come dice il Concilio (Costituzione sulla liturgia, 7). Il fatto di celebrare l'Eucaristia anche tutti i giorni non deve assolutamente offu­scare in noi preti la coscienza del mistero più gran­de di noi, che si compie attraverso i nostri gesti e le nostre parole.

«Age quod agis», dicevano i Romani come re­gola generale di comportamento. Che, tradotto in saggezza piemontese, suona: « Varda lòn che 't fai!», come mi son sentito dire tante volte a casa mia da bambino... e anche dopo: bada a ciò che stai facendo.

Se questa regola vale in ogni circostanza, vale ancora di più quando «diciamo messa». Ma è proprio l’«attenzione» a ciò che si sta facendo, è proprio la chiara consapevolezza di ciò che si­gnifica «dir messa» a non permettere al sacer­dote di isolarsi in se stesso quando celebra l'Eu­caristia, se vuole svolgere veramente bene il suo ministero.

Si suppone, infatti, che normalmente il prete non sia solo, quando celebra la messa: poche o tante che siano, normalmente sono presenti con lui altre persone. Queste altre persone non devono semplicemente «assistere» a un rito che compie il prete. E non è neanche sufficiente dire che de­vono «parteciparvi», ma sempre partendo dal­l'idea che, in fondo, «è il prete che dice messa»: la partecipazione della gente avverrebbe soltanto come un «di più», come un elemento aggiunto dal di fuori al rito - di per sé autonomo e auto­sufficiente - compiuto dal sacerdote.

Per dirla in parole semplicissime: è necessario che tutti quanti - sacerdoti e fedeli - ci abituiamo a pensare alla messa non come un rito che fa il prete, ma come una preghiera che si fa tutti in­sieme, sotto la guida del sacerdote. Una preghie­ra-azione ( = una «celebrazione») che coinvolge insieme il sacerdote e tutti i presenti (non importa se pochi o molti) in un rapporto così profondo, da essere come le diverse membra di un unico corpo quando si compie un'azione impegnativa contem­poraneamente sul piano fisico e su quello spiri­tuale.

La messa si fa insieme: il sacerdote con i fedeli, i fedeli con il sacerdote. Compito del sacer­dote non è quello di «isolarsi» dalla gente (sia pure con la buona intenzione di un più profondo raccoglimento), ma quello di «immedesimarsi» nell'assemblea presente, sentirsi una cosa sola con tutti e farsi carico della preghiera di tutti, diven­tarne animatore e interprete. Questo significa «presiedere l'assemblea».

Punto di riferimento principale del sacerdote nel celebrare la messa non deve essere il messale, ma i fedeli presenti. «II Signore sia con voi» è un saluto e un augurio vero: si dice guardando in faccia i «voi» a cui ci si rivolge, non tenendo gli occhi incollati al messale! E la stessa cosa vale an­che quando si usano le formule più lunghe propo­ste dalla nuova edizione del messale (pagine 293-294)... magari con un piccolo sforzo di memoria!

In un modo o nell'altro, in tempi vicini o in tempi lontani, tutti noi preti abbiamo «imparato a dir messa». Forse però abbiamo ancora molto da imparare per quanto riguarda «l'arte di pre­siedere le assemblee liturgiche» — come ci ricor­dano i nostri Vescovi — «al fine di renderle vere assemblee celebranti, attivamente partecipi e con­sapevoli del mistero che si compie» (Commissione episcopale per la liturgia, « II rinnovamento litur­gico in Italia », n. 7).