mercoledì 15 agosto 2012

sabato 4 agosto 2012

San Giovanni Maria Vianney - Curato d'Ars


Giovanni Maria (Jean-Marie, in francese) Vianney, quarto di sei figli, nacque a Dardilly l’8 maggio 1786, da Mathieu e da Marie Béluse. La sua era una famiglia contadina di discrete condizioni, con una solida tradizione cristiana, prodiga nelle opere di carità.
I suoi studi sono stati un disastro, e non solo per la Rivoluzione francese…: è lui che non ce la fa col latino, non sa argomentare né predicare… Per farlo sacerdote c’è voluta la tenacia dell’abbé Charles Balley, parroco di Ecully, presso Lione: gli ha fatto scuola in canonica, l’ha avviato al seminario, lo ha riaccolto quando è stato sospeso dagli studi e, dopo un altro periodo di preparazione, lo fa ordinare sacerdote a Grenoble il 13 agosto 1815, a 29 anni, mentre gli inglesi portano Napoleone prigioniero a Sant’Elena.
Giovanni Maria Vianney, appena prete, torna a Ecully come vicario dell’abbé Balley. Vi rimase per poco più di due anni, fino alla morte del suo protettore, avvenuta il 16 dicembre 1817. Allora lo mandano vicino a Bourg-en-Bresse, ad Ars, un borgo con meno di trecento abitanti, che diventerà parrocchia soltanto nel 1821: poca gente, frastornata da 25 anni di sconquassi.
Il curato d’Ars è tra questa gente, con un suo rigorismo male accetto, con la sua impreparazione, tormentato dal sentirsi incapace. Aria di fallimento, angoscia, voglia di andarsene…ma dopo alcuni anni ad Ars viene gente da ogni parte : quasi dei pellegrinaggi. Vengono per lui, conosciuto in altre parrocchie dove va ad aiutare o a supplire parroci, specie nelle confessioni. Le confessioni: ecco perché vengono. Questo curato deriso da altri preti, e anche denunciato al vescovo per le “stranezze” e i “disordini”, è costretto a stare in confessionale sempre più a lungo (10 e più ore al giorno).
E ormai ascolta anche il professionista di città, il funzionario, la gente autorevole, chiamata ad Ars dai suoi straordinari talenti nell’orientare e confortare, attirata dalle ragioni che sa offrire alla speranza, dai mutamenti che il suo parlare tutto minuscolo sa innescare. Qui si potrebbe parlare di successo, di rivincita del curato d’Ars, e di una sua trionfale realizzazione. Invece continua a credersi indegno e incapace, tenta due volte la fuga e poi deve tornare ad Ars, perché lo aspettano in chiesa, venuti anche da lontano.
Sempre la messa, sempre le confessioni, fino alla caldissima estate 1859, quando non può più andare nella chiesa piena di gente perché sta morendo. Paga il medico dicendogli di non venire più: ormai le cure sono inutili, ed infatti raggiunge il Padre il 4 agosto.
Annunciata la sua morte, “treni e vetture private non bastano più”, scrive un testimone. Dopo le esequie il suo corpo rimane ancora esposto in chiesa per dieci giorni e dieci notti.
S. Pio X (Giuseppe Sarto, 1903-1914) lo ha proclamato Beato l’8 gennaio 1905: è stato ca-nonizzato il 31 maggio 1925 da Pp Pio XI (Ambrogio Damiano Achille Ratti, 1922-1939 ), che nel 1929 lo ha anche dichiarato Patrono dei parroci.
Nel centenario della morte, il 1 agosto 1959, il Beato Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli, 1958-1963) , gli dedicò una enciclica: “Sacerdotii Nostri Primordia” additandolo a modello dei sacerdoti : «Parlare di San Giovanni Maria Vianney è richiamare la figura di un sacerdote straordinariamente mortificato, che, per amore di Dio e per la conversione dei peccatori, si privava di nutrimento e di sonno, s’imponeva rudi discipline e praticava soprattutto la rinunzia di se stesso in grado eroico. Se è vero che non è generalmente richiesto ai fedeli di seguire questa via eccezionale, tuttavia la Divina Provvidenza ha disposto che nella Chiesa non mancassero mai pastori di anime che, mossi dallo Spirito Santo, non esitano ad incamminarsi per questo sentiero, poiché sono tali uomini specialmente che operano miracoli di conversioni… »
Il Beato Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła, 1978-2005), era un grande ammiratore e devoto del santo curato d’Ars (cfr. Dono e mistero, LEV, Città del Vaticano, 1996 – pag. 65-66).
In occasione del 150° anniversario della sua morte, è stato indetto, da Pp Benedetto XVI, un “Anno Sacerdotale” dedicato alla sua figura di cui, qui di seguito, un estratto del discorso ai partecipanti alla plenaria della congregazione per il clero (sala del concistoro lunedì, 16 marzo 2009): « Proprio per favorire questa tensione dei sacerdoti verso la perfezione spirituale dalla quale soprattutto dipende l’efficacia del loro ministero, ho deciso di indire uno speciale “Anno Sacerdotale”, che andrà dal 19 giugno prossimo fino al 19 giugno 2010. Ricorre infatti il 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, vero esempio di Pastore a servizio del gregge di Cristo… »

venerdì 3 agosto 2012

L'uomo delle croci

Un uomo viaggiava, portando sulle spalle tante croci pesantissime.
Era ansante, trafelato, oppresso e, passando un giorno davanti ad un crocifisso, se ne lamentò con il Signore così:
“Ah, signore, io ho imparato nel catechismo che tu ci hai creato per conoscerti, amarti e servirti…
Ma invece mi sembra di essere stato creato soltanto per portare le croci!
Me ne hai date tante e così pesanti che io non ho più forza per portarle…”.
Il Signore però gli disse: “Vieni qui, figlio mio, posa queste croci per terra ed esaminiamole un poco…
Ecco, questa è la croce più grossa e la più pesante; guarda cosa c’ è scritto sopra…”.
Quell’uomo guardò e lesse questa parola: SENSUALITA’.
“Lo vedi?”, disse il Signore, “questa croce non te l’ho data io, ma te la sei fabbricata da solo.
Hai avuto troppa smania di godere, sei andato in cerca di piaceri, di golosità, di divertimenti…
E di conseguenza hai avuto malattie, povertà, rimorsi”.
“Purtroppo è vero, soggiunse l’uomo, questa croce l’ho fabbricata io! E’ giusto che io la porti!”.
Sollevò da terra quella croce e se la pose di nuovo sulle spalle.
Il Signore continuò: “Guarda quest’ altra croce. C’è scritto sopra: AMBIZIONE.
Anche questa l’hai fabbricata tu, non te l’ho data io.
Hai avuto troppo desiderio di salire in alto, di occupare i primi posti, di stare al di sopra degli altri…
E di conseguenza hai avuto odio, persecuzione, calunnie, disinganni”.
“E’ vero, è vero! Anche questa croce l’ho fabbricata io! E’ giusto che io la porti!”. Sollevò da terra quella seconda croce e se la mise sulle spalle.
Il Signore additò altre croci, e disse: “Leggi. Su questa è scritto GELOSIA, su quell’altra: AVARIZIA su quest’altra…”.
“Ho capito, ho capito Signore, è troppo giusto quello che tu dici…”.
E prima che il Signore avesse finito di parlare, il povero uomo aveva raccolto da terra tutte le sue croci e se le era poste sulle spalle.
Per ultima era rimasta per terra una crocetta piccola piccola e quando l’uomo la sollevò per porsela sulle spalle, esclamò:
“Oh! Come è piccola questa! E pesa poco!“. Guardò quello che c’era scritto sopra e lesse queste parole:
“La croce di Gesù”.
Vivamente commosso, sollevò lo sguardo verso il Signore ed esclamò: “Quanto sei buono!”. Poi baciò quella croce con grande affetto.
E il Signore gli disse: “Vedi, figlio mio, questa piccola croce te l’ho data io, ma te l’ho data con amore di padre; te l’ho data perché voglio farti acquistare merito con la pazienza; te l’ho data perché tu possa somigliare a me e starmi vicino per giungere al cielo, perché io l’ho detto:
‘Chi vuole venire dietro a me prenda la sua croce ogni giorno e mi segua…’, ma ho detto anche: ‘il mio giogo è soave e il mio peso è leggero’.”
L’uomo delle croci riprese silenzioso il cammino della vita; fece ogni sforzo per correggersi dei suoi vizi e si diede con ogni premura a conoscere, amare e servire Dio.
Le croci più grosse e più pesanti caddero, una dopo l’altra dalle sue spalle e gli rimase soltanto quella di Gesù.
Questa se la tenne stretta al cuore fino all’ultimo giorno della sua vita, e quando arrivò al termine del viaggio, quella croce gli servì da chiave per aprire la porta del paradiso.


(fonte sconosciuta)

lunedì 4 giugno 2012

Il prete e gli altri (D. Mosso, La Messa e il Messale n. 2, LDC 1985)

Mi hanno raccontato che un pio sacerdote (il quale celebrava la messa con molta devozione, senza mai distogliere lo sguardo dall'altare) un giorno, avendo pronunziato la rituale formula di saluto all'inizio della messa: «II Signore sia con voi», senza alzare gli occhi dal libro, si è sentito rispondere da qualche fedele un po' birichino: «E con il tuo messale!».

Certo, per celebrare l'Eucaristia come si deve ci vogliono raccoglimento e devozione. La messa — nei giorni festivi come nei giorni feriali — è sem­pre una cosa seria. È sempre memoriale della mor­te e risurrezione del Signore, «azione sacra per eccellenza», come dice il Concilio (Costituzione sulla liturgia, 7). Il fatto di celebrare l'Eucaristia anche tutti i giorni non deve assolutamente offu­scare in noi preti la coscienza del mistero più gran­de di noi, che si compie attraverso i nostri gesti e le nostre parole.

«Age quod agis», dicevano i Romani come re­gola generale di comportamento. Che, tradotto in saggezza piemontese, suona: « Varda lòn che 't fai!», come mi son sentito dire tante volte a casa mia da bambino... e anche dopo: bada a ciò che stai facendo.

Se questa regola vale in ogni circostanza, vale ancora di più quando «diciamo messa». Ma è proprio l’«attenzione» a ciò che si sta facendo, è proprio la chiara consapevolezza di ciò che si­gnifica «dir messa» a non permettere al sacer­dote di isolarsi in se stesso quando celebra l'Eu­caristia, se vuole svolgere veramente bene il suo ministero.

Si suppone, infatti, che normalmente il prete non sia solo, quando celebra la messa: poche o tante che siano, normalmente sono presenti con lui altre persone. Queste altre persone non devono semplicemente «assistere» a un rito che compie il prete. E non è neanche sufficiente dire che de­vono «parteciparvi», ma sempre partendo dal­l'idea che, in fondo, «è il prete che dice messa»: la partecipazione della gente avverrebbe soltanto come un «di più», come un elemento aggiunto dal di fuori al rito - di per sé autonomo e auto­sufficiente - compiuto dal sacerdote.

Per dirla in parole semplicissime: è necessario che tutti quanti - sacerdoti e fedeli - ci abituiamo a pensare alla messa non come un rito che fa il prete, ma come una preghiera che si fa tutti in­sieme, sotto la guida del sacerdote. Una preghie­ra-azione ( = una «celebrazione») che coinvolge insieme il sacerdote e tutti i presenti (non importa se pochi o molti) in un rapporto così profondo, da essere come le diverse membra di un unico corpo quando si compie un'azione impegnativa contem­poraneamente sul piano fisico e su quello spiri­tuale.

La messa si fa insieme: il sacerdote con i fedeli, i fedeli con il sacerdote. Compito del sacer­dote non è quello di «isolarsi» dalla gente (sia pure con la buona intenzione di un più profondo raccoglimento), ma quello di «immedesimarsi» nell'assemblea presente, sentirsi una cosa sola con tutti e farsi carico della preghiera di tutti, diven­tarne animatore e interprete. Questo significa «presiedere l'assemblea».

Punto di riferimento principale del sacerdote nel celebrare la messa non deve essere il messale, ma i fedeli presenti. «II Signore sia con voi» è un saluto e un augurio vero: si dice guardando in faccia i «voi» a cui ci si rivolge, non tenendo gli occhi incollati al messale! E la stessa cosa vale an­che quando si usano le formule più lunghe propo­ste dalla nuova edizione del messale (pagine 293-294)... magari con un piccolo sforzo di memoria!

In un modo o nell'altro, in tempi vicini o in tempi lontani, tutti noi preti abbiamo «imparato a dir messa». Forse però abbiamo ancora molto da imparare per quanto riguarda «l'arte di pre­siedere le assemblee liturgiche» — come ci ricor­dano i nostri Vescovi — «al fine di renderle vere assemblee celebranti, attivamente partecipi e con­sapevoli del mistero che si compie» (Commissione episcopale per la liturgia, « II rinnovamento litur­gico in Italia », n. 7).